1 – Osserva l’albero, testimone della memoria
L’albero antico custodisce in sè le radici della storia e può narrare le vicende più remote. Nessun altro essere vivente eguaglia lontanamente la sua età: che in qualche caso, come quello del Pino longevo della California, detto Matusalemme, può aggirarsi intorno ai 5.000 anni.
2 – Onora l’albero, padre della spiritualità
Presso tutti i popoli semplici e primitivi l’albero è sacro, e come narra Plinio il Vecchio “le foreste furono i templi delle divinità”. Ed infatti le prime colonne di questi templi non erano costruite da blocchi di marmo, ma da autentici tronchi giganteschi di Cipresso di Creta e di Cedro del Libano.
3 – Rispetta l’albero, radice dei miti
Nei tempi più remoti, si credeva che l’origine del mondo fosse collegata all’albero cosmico, un albero straordinario ed immenso, con chioma espansa e forte, che costituiva l’asse dell’Universo ed univa il mondo degli abissi sotterranei, esplorati da radici possenti, al cielo più alto e alla stessa divinità.
Ancor oggi molti popoli primitivi, come gli indios amazzonici, ritengono che i grandi alberi della foresta tropicale pluviale sostengano la volta celeste, e che il cielo crollerà il giorno in cui questi alberi verranno abbattuti.
4 – Ammira l’albero, fonte di ispirazione
Dalla contemplazione dello splendore e della varietà degli alberi scaturisce la scoperta e l’apprezzamento per l’armonia e la bellezza del mondo. Ogni albero racchiude una storia, un mistero, una sorpresa per la mente e il cuore dell’uomo che sappia penetrare oltre la sua scorza. Ed offre equilibrio e creatività a quanti si avvicinino ad esso con occhio giovane, libero e aperto.
5 – Conserva l’albero, casa degli animali
L’albero è anche l’insostituibile dimora segreta per mille creature di tutte le specie, animali grandi e piccoli, familiari e sconosciuti, che vi trovano cibo, tana e rifugio.
Soprattutto i grandi alberi plurisecolari, nella fase finale del loro ciclo vitale, e lo stesso legno morto che ne deriva, offrono l’ambiente ideale per la riproduzione di una biodiversità tanto rara, quanto ricca e preziosa, essenziale per il funzionamento e la stabilità degli ecosistemi.
6 – Tutela l’albero, custode del suolo
Un grande albero sano, in un bosco ben conservato, può assorbire con la sua chioma metà della pioggia, restituendo poi gradualmente l’acqua raccolta, sotto forma di vapore acqueo. Ma anche la pioggia che raggiunge e penetra il suolo vi arriva sapientemente dosata e smorzata, senza quella terribile forza dinamica di erosione che, sui suoli denudati, ha creato nel nostro Paese la piaga di frane, alluvioni, smottamenti e dissesto idrogeologico.
7 – Proteggi l’albero, sorgente di forza e di vita
Ogni albero sprigiona colori inarrivabili, suoni indecifrabili e profumi sconosciuti in ogni ora del giorno e della notte, e nelle varie stagioni. Ed anche dopo la morte, i rami caduti, i tronchi in disfacimento e i ceppi marcescenti offrono asilo e nutrimento alla più varia, ricca e preziosa microfauna e microflora: una straordinaria comunità vivente, dalla quale dipendono la fertilità del suolo e gli equilibri dell’ecosistema.
8 – Difendi l’albero, purificatore dell’aria
Un albero grande e bello costituisce un patrimonio insostituibile: tagliarlo quand’è maturo, sostituendolo con un giovane germoglio, non garantisce affatto la compensazione di tutti i servizi ecologici perduti. La superficie fogliare di un albero appena piantato è infatti di circa un metro quadrato, vale a dire oltre mille volte inferiore a quella d’un albero adulto.
9 – Apprezza l’albero, sorgente di benessere e di felicità
L’albero offre generosamente molti ecoservizi inestimabili per l’umanità, tra cui in primo luogo un’efficace azione di climatizzazione soprattutto nei periodi più caldi ed afosi, donando ombra fresca e ristoro, riducendo la temperatura ed
aumentando l’umidità. Lo stesso albero può inoltre smorzare fino a metà la velocità del vento, attenuando sensibilmente anche tutti i fastidiosi rumori circostanti.
10 – Godi dell’albero e dei suoi doni preziosi
L’albero può offrire risorse materiali inestimabili – legno, rami e fogliame, frutti, bacche e radici – ricche di utilità molteplici per la vita dell’uomo: da sfruttare però con misura e saggezza, raccogliendo sì i frutti e le altre risorse rinnovabili, ma senza mai impoverire né intaccare il basilare patrimonio che le produce.
Autore: Tecla Bergamaschi
I Bonus fiscali per gli impianti fotovoltaici
La detrazione IRPEF del 50% per le ristrutturazioni edilizie generiche viene applicata anche per l’installazione di impianti fotovoltaici, in tal caso però è esclusa la possibilità di usufruire degli incentivi previsti dal Quinto Conto Energia.
Ecco la dichiarazione ufficiale dall’Agenzia delle entrate in merito alla detrazione fiscale per i pannelli fotovoltaici:
“L’installazione di pannelli fotovoltaici per la produzione dell’energia elettrica può rientrare nell’agevolazione (detrazione IRPEF del 50%), ma in questo caso l’elettricità prodotta non può essere incentivata attraverso il cosiddetto Conto Energia, previsto dal D. M. 5 luglio 2012 (denominato Quinto Conto Energia)”. La detrazione IRPEF del 50% riguardante le ristrutturazioni edilizie generiche, chiarisce inoltre l’AE, spetta non solo ai proprietari degli immobili ma anche ai titolari di diritti reali o personali di godimento sugli immobili oggetto degli interventi. “Ha diritto alla detrazione – aggiunge l’ufficio stampa della AE – anche il familiare convivente del possessore o detentore dell’immobile oggetto dell’intervento di ristrutturazione, purché sostenga le spese e siano a lui intestati bonifici e fatture“.
Ci sono altre spese che si possono detrarre?
Si, certamente, è possibile beneficiare della detrazione per:
- progettazione e prestazioni professionali
- messa in regola degli impianti (DM 37/2008 – ex legge 46/90)
- acquisto materiali
- relazione di conformità
- perizie e sopralluoghi
- IVA, bolli e diritti per le concessioni
- oneri di urbanizzazione.
Come poter fare per beneficiare del bonus
- I pagamenti devono essere effettuati con bonifico postale o bancario, sempre avendo cura di conservare le ricevute che possono essere richieste dagli uffici finanziari.
- Nella dichiarazione dei redditi occorre indicare i dati catastali dell’immobile.
- La detrazione non è cumulabile con quella per interventi di riqualificazione energetica degli immobili.
E’ possibile perdere la detrazione?
Si, e bisogna fare molta attenzione ad operare sempre secondo le direttive di Legge. La detrazione (come spiega la Guida dell’Agenzia delle Entrate Gennaio 2015), non viene riconosciuta, e quindi l’importo fruito viene recuperato dall’ Agenzia nei seguenti casi:
- non è stata effettuata la comunicazione preventiva all’Asl competente, se obbligatoria
- il pagamento non è stato eseguito tramite bonifico bancario o postale o è stato effettuato un bonifico che non riporti le indicazioni richieste (causale del versamento, codice fiscale del beneficiario della detrazione , numero di partita Iva o codice fiscale del soggetto a favore del quale il bonifico è effettuato )
- non sono esibite le fatture o le ricevute che dimostrano le spese effettuate
- non è esibita la ricevuta del bonifico o questa è intestata a persona diversa da quella che richiede la detrazione
- le opere edilizie eseguite non rispettano le norme urbanistiche ed edilizie comunali
- sono state violate le norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e quelle relative agli obblighi contributivi.
Per queste violazioni il contribuente non decade dal diritto all’agevolazione se è in possesso della dichiarazione di osservanza delle suddette disposizioni resa dalla ditta esecutrice dei lavori (ai sensi del Dpr 28 dicembre 2000, n. 445).
Cosa succede se dopo aver ricevuto l’agevolazione, si cambia il possesso?
Se l’immobile sul quale è stato eseguito l’intervento di recupero edilizio è venduto prima che sia trascorso l’intero periodo per fruire dell’agevolazione, il diritto alla detrazione delle quote non utilizzate è trasferito, salvo diverse indicazioni.
Assalto 2011 ai Parchi d’Abruzzo
Dopo il terremoto del 6 aprile 2009 in Abruzzo, e la condanna all’oblio perpetuo della città dell’Aquila, destinata a diventare la Pompei del Terzo Millennio – come denuncia chiaramente il suo ultimo abitante che ancora non vuole abbandonare la città, l’insigne storico professor Raffaele Colapietra – le associazioni ambientaliste lanciano oggi un nuovo l’allarme: mascherato da opera benefica, avanza ora silenziosamente un altro sisma devastante, questa volta di origine umana e fortemente voluto da politici, affaristi e costruttori. Un diluvio di cemento gabellato per “opera di bene”, che presto colerà sulle montagne circostanti, dal Gran Sasso al Velino-Sirente.
La soluzione magica di tutti i problemi economici, sociali e urbanistici che affliggono il territorio viene infatti individuata senza esitazione. Si tratta di creare i tanto decantati bacini sciistici: impianti, costruzioni e consumi di territorio nel cuore degli ultimi ambienti naturali finora scampati alla distruzione. Poco importa che si tratti di Parchi Nazionali di grande valore, sottoposti a tutti i vincoli di tutela, nè rileva che – come ormai tutti dovrebbero sapere – l’innevamento della penisola (anche a causa del riscaldamento globale, reso evidente dalla progressiva scomparsa dell’unico ghiacciaio appenninico, il Ghiacciaio del Calderone), non risulta davvero in grado di sostenere attività invernali per prolungati periodi.
Si finge di ignorare ciò che è ormai assodato: e cioè che gli impianti sciistici nell’Appennino costituiscono imprese disastrose sul piano economico, capaci di produrre molti danni paesaggistici, ecologici e ambientali, ma in grado di offrire pochissimi posti di lavoro, e destinate a restare comunque fortemente passive. I ricorrenti fallimenti delle stazioni di Scanno e Pescasseroli, che continuano a divorare fiumi di danaro senza risolvere mai alcun problema, lo dimostrano chiaramente. Nessuno deve fingere di non sapere, e non vedere, che in realtà questi impianti rappresentano veri e propri “specchietti per le allodole” per richiamare un turismo benestante, convincendolo ad acquistare la casa o la villa in montagna. Con un grimaldello del genere, lo scrigno della montagna inviolata potrà essere aperto alla consueta ondata cementizia, edificatoria e speculativa: proprio come è già avvenuto in molte altre località dell’Appennino, vedere per credere.
E allora? Perchè incaponirsi a considerare questi bacini sciistici un toccasana magico per il futuro delle zone terremotate, come vorrebbe sostenere il nostro attuale governo attraverso le ripetute visite pastorali all’Aquila del sottosegretario Gianni Letta? Nessuno si rende conto del fatto che la verità è ben diversa, e che si prepara invece un diluvio di edilizia residenziale di media e alta quota, con alberghi, condomini e ville da vendere a romani e napoletani? In questo periodo di crisi finanziaria, da dove mai proverranno questi fiumi di danaro pronti a cementificare l’Aquilano in nome di una causa santa, definita “un vero atto d’amore” per le comunità locali? Qualcuno avrà il coraggio di rivelare cosa stia covando davvero sotto alle montagne dell’Abruzzo, un tempo noto come la mitica “Regione Verde d’Europa”? Nessuno ricorda le battaglie degli anni Settanta condotte con successo contro la speculazione selvaggia al Parco Nazionale d’Abruzzo? Allora le analisi socioeconomiche condotte dal Direttore Soprintendente Franco Tassi, le prime del genere a livello internazionale, dimostrarono in modo inoppugnabile che a trarre guadagno dallo sfacelo del territorio erano pochi affaristi, che i paesi e le comunità locali ne ricavavano soltanto svantaggi, e che assai meglio sarebbe stato invece puntare sulla risorsa Parco. Una strategia innovativa, che poi avrebbe avuto pieno successo con l’ecosviluppo e l’ecoturismo di Civitella Alfedena e di altri villaggi nel cuore del Parco, privi di impianti sciistici ma ricchi di natura protetta.
La domanda che sorge spontanea è quindi una sola, semplice e chiara: perché l’Abruzzo non torna ad essere la Regione Verde dei Parchi? Rilanciandoli davvero, e cercando nell’ambiente, nella sua conservazione e intelligente utilizzazione la risorsa migliore per il proprio futuro… Comprendendo finalmente, nel segno e nel nome dell’Orso marsicano, che la strada maestra per il proprio riscatto è quella della natura.
Operazione San Francesco
Perseguitato e diffamato, braccato e sterminato come nessun altro animale al mondo, simbolo del “male” per eccellenza fino al secolo scorso, questo forte predatore sta ora riconquistando, poco a poco, i propri territori… Ma anziché gridare “Al lupo! Al lupo!” molti giovani e meno giovani accorrono oggi alla montagna per vederlo, fotografarlo, scoprirne le tracce o udirne l’ululato. E’ morta ormai la leggenda del “lupo cattivo”, è nato il fascino del fiero lupo ultimo “custode” della natura inviolata.
1.- La favola del lupo cattivo
Tutti conoscono le favole di Cappuccetto Rosso e dei Tre Porcellini alle prese con Ezechiele “lupo cattivo” , ma al giorno d’oggi non è facile immaginare quale fosse davvero, nei tempi passati, la percezione di questo splendido animale nell’immaginario collettivo. L’incarnazione stessa del male, un nemico assoluto non solo da combattere, ma da distruggere completamente, un demonio da cancellare dalla faccia della terra. Ne dava chiara testimonianza nell’anno 1863 il forestale naturalista Adolfo Di Bérenger narrando che “una legge di Carseoli, città della Sabina (l’odierna Carsoli) vietava persino pronunciare il nome del lupo, tanto erano infesti alle campagne e aborriti”.
Fino a mezzo secolo fa, bastava aver notizia di qualche avvistamento di lupi nelle campagne intorno al villaggio per armarsi, e partire tutti insieme per la “battuta”, con in testa parroco, sindaco e maresciallo dei carabinieri. Tagliole e bocconi avvelenati si sprecavano, i premi per gli eroici sparatori non mancavano, e la rituale foto di gruppo accanto alle spoglie dell’animale massacrato coronava la parte finale dell’impresa. Anche in precedenza, uno dei mestieri più rispettati era stato quello del “luparo”, che ispirò storie, leggende e persino il film “Uomini e lupi”.
Lanciare una campagna in difesa del lupo in quella situazione poteva sembrare pura follia. A nulla valeva cercare di spiegare che si trattava di un essere vivente che non avevamo alcun diritto di condannare senza appello, di un animale in pericolo, di un essenziale elemento per l’equilibrio naturale. Ma nonostante tutto, ideammo e lanciammo una nuova strategia: l’Operazione San Francesco. Una campagna ecosociologica vivace, che in breve conquistò il cuore e la mente della gente, dilagando in modo incontenibile. Ci furono d’aiuto la figura del Santo Patrono degli Italiani, e naturalmente anche la storia di Romolo e Remo allattati da una lupa sulle sponde del Tevere.
2.- Morte di una leggenda
Il segreto del successo fu tutto nello spirito innovativo, nella forza delle idee, nel superamento delle barriere convenzionali e nella rivelazione della verità e della bellezza della natura accanto a noi. Ma scaturì anche dall’immediatezza con cui ogni decisione, annuncio, impegno o promessa si traduceva subito in tangibile realtà. Già dal 1970 il Parco Nazionale d’Abruzzo aveva promosso l’Operazione San Francesco, diffondendo una splendida foto del Lupo appenninico accompagnata da un semplice detto dei pellerosse americani: “Con tutti gli esseri, e con tutte le cose noi saremo fratelli”. L’anno successivo la campagna veniva lanciata ufficialmente, in collaborazione con il giovane WWF Italia: ma fu poi nel 1973 che essa prese maggior forza e consistenza, grazie alla fortunata convergenza di alcuni eventi di grande rilievo.
Fu infatti in quell’anno che in un piccolo e semisconosciuto paesino montano dell’Abruzzo il Parco creò un Centro di Visita dedicato al Lupo appenninico con annessa Area Faunistica, senza costruire nulla ma ristrutturando una vecchia stalla e affittando i terreni circostanti. E così attrasse immediatamente flussi di visitatori, naturalisti e curiosi, perchè nessuno sapeva davvero, all’epoca, come fosse fatto un lupo, nè lo aveva mai fotografato da vicino: e ben pochi erano consapevoli di quale fosse la vita di un branco del carnivoro tanto temuto. L’unica fonte di informazione, infatti, erano allora le iperboliche copertine della Domenica del Corriere, raffiguranti spietati attacchi ai poveri viandanti da parte di interminabili branchi di famelici lupi completamente neri.
Al tempo stesso, giungeva in Europa lo studioso canadese Douglas Pimlott, in missione speciale di riabilitazione del lupo per incarico dell’UICN (Unione Mondiale per la Natura). La sua tappa in Italia fu proprio nel Parco d’Abruzzo, con un memorabile incontro affollato di esperti e giornalisti, aperto con registrazioni di ululati e concluso con la proiezione dello splendido film “Morte di una leggenda”. Che faceva giustizia delle storie sul lupo cattivo, incantava con gli scenari del Grande Nord ancora selvaggio, commuoveva con le riprese di mamma lupa e dei suoi cuccioli. Proiettato poi dal nascente Gruppo Lupo in ogni parte d’Italia, applaudito da migliaia di persone di ogni età ed estrazione culturale, avrebbe avuto un effetto straordinario sull’opinione pubblica italiana.
Nel frattempo WWF e Parco avevano deciso anche di promuovere una ricerca sul Lupo appenninico, chiamando in Italia alcuni dei maggiori esperti, tra cui lo statunitense David Mech e lo svedese Erik Zimen, che avrebbero formato un gruppo di giovani operatori italiani, tra cui il biologo Luigi Boitani. Grazie all’appoggio del nuovo Centro Studi Ecologici Appenninici, che il Parco aveva costituito l’anno precedente, venne condotta così la prima indagine radiotelemetrica in Italia (con 3 lupi seguiti a distanza grazie a speciali collari), una delle primissime anche a livello europeo.
Non fu quindi per caso che proprio nel 1973 venne emanato dal Ministro dell’Agricoltura e Foreste Lorenzo Natali un primo decreto temporaneo per la protezione triennale del lupo, che poi fu reso definitivo nel 1976 ad opera del suo successore Giovanni Marcora. Ma la reazione dei nemici del lupo non si fece attendere: e fu ben presto diffusa la voce che questi animali stessero ritornando in numero nell’Appennino perchè importati dalla Siberia, trasportati con aerei ed elicotteri e magari poi lanciati con il paracadute. Una leggenda metropolitana ovviamente falsa, ma assai dura a morire. Cercare testimoni oculari dei fantomatici lanci sarebbe stato tempo perso, perchè ciascuno riferiva d’aver appreso questa storia da altre persone. Ma come si sa, proprio le storie assurde sono le più dure a morire.
3.- Il Lupo appenninico valica le frontiere
Mentre l’Operazione San Francesco si prodigava in conferenze, proiezioni e manifestazioni in difesa del predatore, risvegliando una pubblica opinione distratta e sonnolenta, il Lupo appenninico si consolidava nel Mezzogiorno d’Italia: e dall’Appennino Centrale iniziava la sua tenace risalita verso Nord, raggiungendo nel 1987 le Alpi Marittime e finalmente valicando la frontiera con la Francia. “Bonne nouvelle, le loup revient!” titolava un ampio servizio del più autorevole settimanale francese, L’Express: buone nuove, il lupo ritorna… Eh sì, perchè un animale estinto da decenni, che torna a stabilirsi tra le montagne prospicienti la Costa Azzurra, non è una notizia da poco. Significa davvero che si tratta di valli, foreste e alte praterie di qualità ecologica eccezionale, vuol dire che anche quando la natura sembra agonizzante può sempre riprendersi.
La sua corsa alla riconquista degli antichi territori non trovò ostacoli, riuscendo a superare – magari dopo ripetuti tentativi – autostrade e fiumi, zone abitate e lande desolate. Così il lupo, dopo mezzo secolo e oltre, si è di nuovo stabilito al Gargano e in Aspromonte, nei Monti della Tolfa e in Maremma, e poi via via lungo la catena alpina, da Occidente a Oriente, sconfinando in Svizzera e trovando di proprio gradimento anche il Trentino-Alto Adige e il Friuli-Venezia Giulia, dove sono stati già registrati i primi avvistamenti e certo l’ambiente appare per molti aspetti ideale.
Ma è proprio nelle Alpi Orientali che si delinea un fatto nuovo e inatteso: perchè secondo attendibili segnalazioni qui sarebbero in arrivo anche i lupi provenienti da Est, appartenenti quindi alla forma nordica europea, che presenta molte caratteristiche diverse, è più chiara e robusta, ha pelo più folto. Cosa accadrà allora: si troveranno in conflitto dividendosi il territorio, o punteranno verso una progressiva integrazione? Anche se certi “specialisti” sembrano ignorarlo, o volerlo dimenticare, sicuramente il Lupo appenninico (Canis lupus italicus), descritto nel lontano 1926 dal medico molisano Giuseppe Altobello, costituisce un’ottima sottospecie meridionale, ben distinta anche sul piano genetico.
A distanza di quarant’anni esatti dal lancio dell’Operazione San Francesco, è tempo di tracciarne un bilancio: e non vi è dubbio che le vada riconosciuto un successo senza eguali. Anzitutto, i lupi in Italia sono aumentati, forse decuplicati, ma nessuno dei disastri paventati o annunciati si è mai verificato. Non vi sono stati attacchi all’uomo, mandrie e greggi ben custodite hanno evitato aggressioni, e generalmente i danni al bestiame domestico sono rimasti contenuti entro limiti fisiologici (e oggi finalmente tutti ammettono che debbano essere prontamente indennizzati). Si è dovuto constatare che in molti casi più gravi il colpevole è il cane vagante, randagio o inselvatichito (fatto incontestabile nelle isole, dove di lupi non esiste neppure l’ombra). Nella sua espansione, il lupo sta modificando le proprie abitudini: e preda oggi nella maggior parte dei casi animali non domestici, ma selvatici, anche in rapporto al grande incremento di cinghiali, caprioli e daini. In questo modo un branco di lupi ben legato al proprio territorio vi esercita in modo equilibrato tutte le proprie funzioni: contenimento dell’eccessiva espansione degli ungulati, loro oculata selezione naturale e continuo spostamento delle prede da un pascolo all’altro.
4.- IL futuro del Lupo in Europa
E´giusto allora concludere che in futuro uomo e lupo potranno convivere pacificamente? In certo modo questo già avviene, benchè ovviamente non manchino episodi di più o meno aperta conflittualità. L’incremento della popolazione di lupi in Italia troverà un limite nelle stesse leggi naturali, o dovrà essere contenuto in qualche modo dall’uomo? E in tal caso, con quali metodi? Sarebbe giustificato procedere a parziali abbattimenti, o a tentativi locali di “rapida eradicazione dalle zone non vocate”, magari attraverso procedure cervellotiche e protocolli arbitrari, come vanno predicando da tempo alcuni pseudo-esperti del settore? Contro tali sistemi, per fortuna, si è levata quasi unanime la riprovazione del mondo ambietalista: ma non v’è dubbio che di tanto in tanto proposte del genere possano riemergere, perchè celano interessi ben diversi e più ampi della semplice difesa degli allevamenti e della pastorizia. Un esempio concreto e recentissimo viene anche dalla civilissima Svezia, dove il lupo non è davvero troppo numeroso: ma le insistenze degli allevatori, e soprattutto dei cacciatori, si erano fatte assordanti. Allora le autorità, cedendo alle richieste per un malinteso senso di democrazia, hanno autorizzato l’abbattimento di alcune decine di lupi nordici, prontamente eseguito dai fucilieri. Un intervento che ovviamente non ha prodotto alcun altro risultato se non molto spargimento di sangue, qualche guadagno per ricercatori trasformisti, e soddisfazione alle brame di sparatori in crisi di astinenza. A denunciarlo pubblicamente sono stati i veri ambientalisti, che hanno sfilato lungo le strade principali di Stoccolma in un funerale immaginario, con altrettante bare quanti erano stati i lupi uccisi. Per risolvere il problema della convivenza tra uomo e lupo, un metodo efficace invece esiste davvero, ed è stato sperimentato proprio in Abruzzo, grazie all’attiva collaborazione di allevatori, pastori e naturalisti: si tratta del Progetto Arma Bianca, che vede nell’impiego del cane da pastore abruzzese il miglior rimedio possibile. Perchè questo mastino fedele e coraggioso si sente “fratello” delle pecore, percepisce il pericolo in arrivo e lancia al “nemico” segnali di avvertimento, che nella maggior parte dei casi funzionano da efficace deterrente. Al branco di lupi converrà allora evitare lunghe e rischiose battaglie, cercando invece tutt’intorno qualche preda selvatica più accessibile. In questo modo, si salvano non solo la pecora e il pastore, ma anche il formaggio di montagna e il lupo stesso: senza dimenticare questa magnifica razza di cani da gregge, addestrati fin dall’epoca dei Sanniti. Una prova in più del fatto che, per prevenire devastanti conflitti, è sempre meglio non premere alcun grilletto, ma ricorrere piuttosto all’arma pacifica della prevenzione e della collaborazione. La storia del Lupo appenninico e dell’Operazione San Francesco insegna quindi molte cose, e rappresenta anche il simbolo di un’Europa unita e pacifica, che non conosce frontiere. E’ stato infatti lui, prima ancora dei trattati di Schengen per la libera circolazione dei cittadini europei, a insegnarci che è possibile valicare montagne, superare frontiere e unire terre e popoli diversi, portando un vivo messaggio di speranza e di riconciliazione tra l’uomo e la natura.
di Franco Tassi
Un altro orso marsicano ucciso
Questa volta i bracconieri non si sono accontentati di assassinarlo, ma lo hanno anche seppellito, ricoprendo la fossa di terra e calce per non farlo scoprire: l’uccisione dell’orso risale a mesi fa, ma a quanto pare nessuno se ne era accorto. E ancora una volta, è stata scoperta per caso, perché strani odori provenienti dal suolo spingevano gli animali selvatici a scavare proprio in quel punto. Con questa ennesima vittima innocente, secondo il Gruppo Orso i plantigradi perduti nell’ultimo decennio sarebbero ormai circa una trentina.
La notizia non meriterebbe commenti, se non che ai proclami trionfalistici di studiosi e responsabili non corrisponde nei fatti che una lunga serie di annunci funebri. Ed è ridicolo cercare di sostenere che l’orso sia ben protetto, che muoia per cause naturali, o che già dal secolo scorso risultasse ridotto ai minimi termini… Oppure far credere che la situazione sia sempre stata così drammatica, manipolando le statistiche per confondere le idee. Sarebbe invece il caso di dire finalmente la verità, adottando le misure da tempo sollecitate dal Gruppo Orso e rispondendo a poche semplici, essenziali domande (si veda l’accluso Decalogo).
Anzitutto, non va taciuto che ogni morte di orso scatena grandi assicurazioni e promesse, cui non seguono poi effetti pratici. I colpevoli non sono mai individuati e puniti, non intervengono efficaci strategie di contrasto, e non si rivela neppure se l’orso morto faceva parte o meno di quelli già censiti. Intanto fuoristrada, motocross e cani dilagano, imperversa il bracconaggio, continua l’invasione delle “vacche sacre”: e come per incanto, spuntano qua e là anche esche avvelenate di ogni tipo. Si finanziano autorevoli ricerche scientifiche che si protraggono per tempi biblici, ma nessuno indaga su costi e risultati.
La confusione regna sovrana, soprattutto sul numero degli orsi. Nel giro di pochi anni, il valzer delle cifre ha danzato da 20 a 30, poi tra 40 e 50, senza mai rivelare che questo dinamico censimento investe soltanto una parte del territorio frequentato dal plantigrado. Infatti altri orsi vengono intanto segnalati, osservati e fotografati nei Parchi e nelle Riserve circostanti: in Abruzzo, Lazio e Molise, e perfino nelle lontane Marche. Negli ultimi tempi, le autorità si sono spinte ad ammettere che l’orso marsicano potrebbe oggi contare 70 individui, e oltre. Ma nessuno confessa quanti individui siano stati davvero perduti nell’ultimo decennio (una trentina circa, secondo gli osservatori più attenti): forse perché questo dimostrerebbe chiaramente che le poco dispendiose stime ufficiali dell’inizio del nuovo millennio, le quali valutavano la consistenza della popolazione appenninica a circa un centinaio di esemplari, erano più che fondate.
Comitato Parchi Nazionali
Gruppo Orso Italia
Roma, 23/4/2011
Alla salvezza dell’orso marsicano
Da molti anni il Gruppo Orso raccomanda, spesso inascoltato, di adottare rimedi concreti per sottrarre all’estinzione l’Orso marsicano (Ursus arctos marsicanus), senza dubbio l’animale più importante, amato e minacciato della fauna italiana.
Ecco, in sintesi, i dieci “comandamenti” che potrebbero assicurargli un futuro migliore.
1.- Rilanciare l’immagine dell’Orso, simbolo della Marsica e dell’Abruzzo in Italia e nel mondo.
2.- Divulgare la sua straordinaria storia, realtà e lotta per la vita nelle scuole, nelle organizzazioni culturali e turistiche, negli ambienti giornalistici, accademici e politici.
3.- Rafforzare il presidio del territorio con ampliamento della tutela, miglioramento della sorveglianza, volontariato nazionale e internazionale, massimo coinvolgimento generale.
4.- Ripristinare quella campagna alimentare che per un lungo periodo (1969-2001) aveva offerto risorse naturali, fungendo anche da ammortizzatore sociale per i coltivatori locali.
5.- Evitare tagli forestali di tipo industriale che diradino il bosco e aprano varchi di accesso verso zone remote, frequentate e abitate dal plantigrado.
6.- Mantenere la pastorizia ovina tradizionale nelle aree consentite, ma precludere l’invasione di mandrie bovine esterne, per evitare conflitti con i grandi predatori.
7.- Pur incoraggiando la ricerca scientifica, escludere interventi “invasivi” come ripetute catture, uso eccessivo di radiocollari, disseminazione di esche olfattive.
8.- Render note in modo completo e trasparente le perdite di orsi dell’ultimo decennio, per individuarne, comprenderne e contrastarne le vere cause.
9.- Ristabilire, in luogo del costoso “censimento” su parte dell’areale, un semplice ma efficace metodo di “stima” globale, che abbracci l’intero territorio abitato dall’orso.
10.- Rilanciare il progetto di riproduzione in siti riservati, con madre e cuccioli insieme nel periodo delle cure parentali, e successivo “ricondizionamento” dei giovani alla vita selvatica.
Fin dagli anni Settanta, il Parco Nazionale d’Abruzzo è stato all’avanguardia nella ricerca scientifica su Orso, Lupo, Lince, Camoscio d’Abruzzo e Biodiversità, promuovendo tra i primi in Europa indagini approfondite sui grandi predatori e strategie vincenti per la loro salvaguardia: basterebbe ricordare ad esempio le Operazioni San Francesco per il Lupo appenninico e Gattopardo per la Lince, nonchè le numerose Campagne in difesa dell’Orso marsicano.
Salvare l’Orso marsicano significa, anzitutto, rivalutare la cultura della convivenza: amare questo eremita vagabondo, infatti, non vuol dire spiarlo, braccarlo, nutrirlo, ma rispettarlo e proteggere la sua dimora, difendendo la pace e il silenzio delle montagne, e l’atmosfera selvaggia delle ultime selve vetuste. Vuol dire insomma saperne cogliere le presenza da mille tracce e indizi, magari osservandolo talvolta da lontano per brevi attimi, e trattenendo il respiro. Consiste nell’essere comunque felici per il solo fatto di sapere che lui, l’ultimo custode di un prezioso mondo altrove scomparso, ancora esiste vive e respira non lontano da noi.