Perseguitato e diffamato, braccato e sterminato come nessun altro animale al mondo, simbolo del “male” per eccellenza fino al secolo scorso, questo forte predatore sta ora riconquistando, poco a poco, i propri territori… Ma anziché gridare “Al lupo! Al lupo!” molti giovani e meno giovani accorrono oggi alla montagna per vederlo, fotografarlo, scoprirne le tracce o udirne l’ululato. E’ morta ormai la leggenda del “lupo cattivo”, è nato il fascino del fiero lupo ultimo “custode” della natura inviolata.
1.- La favola del lupo cattivo
Tutti conoscono le favole di Cappuccetto Rosso e dei Tre Porcellini alle prese con Ezechiele “lupo cattivo” , ma al giorno d’oggi non è facile immaginare quale fosse davvero, nei tempi passati, la percezione di questo splendido animale nell’immaginario collettivo. L’incarnazione stessa del male, un nemico assoluto non solo da combattere, ma da distruggere completamente, un demonio da cancellare dalla faccia della terra. Ne dava chiara testimonianza nell’anno 1863 il forestale naturalista Adolfo Di Bérenger narrando che “una legge di Carseoli, città della Sabina (l’odierna Carsoli) vietava persino pronunciare il nome del lupo, tanto erano infesti alle campagne e aborriti”.
Fino a mezzo secolo fa, bastava aver notizia di qualche avvistamento di lupi nelle campagne intorno al villaggio per armarsi, e partire tutti insieme per la “battuta”, con in testa parroco, sindaco e maresciallo dei carabinieri. Tagliole e bocconi avvelenati si sprecavano, i premi per gli eroici sparatori non mancavano, e la rituale foto di gruppo accanto alle spoglie dell’animale massacrato coronava la parte finale dell’impresa. Anche in precedenza, uno dei mestieri più rispettati era stato quello del “luparo”, che ispirò storie, leggende e persino il film “Uomini e lupi”.
Lanciare una campagna in difesa del lupo in quella situazione poteva sembrare pura follia. A nulla valeva cercare di spiegare che si trattava di un essere vivente che non avevamo alcun diritto di condannare senza appello, di un animale in pericolo, di un essenziale elemento per l’equilibrio naturale. Ma nonostante tutto, ideammo e lanciammo una nuova strategia: l’Operazione San Francesco. Una campagna ecosociologica vivace, che in breve conquistò il cuore e la mente della gente, dilagando in modo incontenibile. Ci furono d’aiuto la figura del Santo Patrono degli Italiani, e naturalmente anche la storia di Romolo e Remo allattati da una lupa sulle sponde del Tevere.
2.- Morte di una leggenda
Il segreto del successo fu tutto nello spirito innovativo, nella forza delle idee, nel superamento delle barriere convenzionali e nella rivelazione della verità e della bellezza della natura accanto a noi. Ma scaturì anche dall’immediatezza con cui ogni decisione, annuncio, impegno o promessa si traduceva subito in tangibile realtà. Già dal 1970 il Parco Nazionale d’Abruzzo aveva promosso l’Operazione San Francesco, diffondendo una splendida foto del Lupo appenninico accompagnata da un semplice detto dei pellerosse americani: “Con tutti gli esseri, e con tutte le cose noi saremo fratelli”. L’anno successivo la campagna veniva lanciata ufficialmente, in collaborazione con il giovane WWF Italia: ma fu poi nel 1973 che essa prese maggior forza e consistenza, grazie alla fortunata convergenza di alcuni eventi di grande rilievo.
Fu infatti in quell’anno che in un piccolo e semisconosciuto paesino montano dell’Abruzzo il Parco creò un Centro di Visita dedicato al Lupo appenninico con annessa Area Faunistica, senza costruire nulla ma ristrutturando una vecchia stalla e affittando i terreni circostanti. E così attrasse immediatamente flussi di visitatori, naturalisti e curiosi, perchè nessuno sapeva davvero, all’epoca, come fosse fatto un lupo, nè lo aveva mai fotografato da vicino: e ben pochi erano consapevoli di quale fosse la vita di un branco del carnivoro tanto temuto. L’unica fonte di informazione, infatti, erano allora le iperboliche copertine della Domenica del Corriere, raffiguranti spietati attacchi ai poveri viandanti da parte di interminabili branchi di famelici lupi completamente neri.
Al tempo stesso, giungeva in Europa lo studioso canadese Douglas Pimlott, in missione speciale di riabilitazione del lupo per incarico dell’UICN (Unione Mondiale per la Natura). La sua tappa in Italia fu proprio nel Parco d’Abruzzo, con un memorabile incontro affollato di esperti e giornalisti, aperto con registrazioni di ululati e concluso con la proiezione dello splendido film “Morte di una leggenda”. Che faceva giustizia delle storie sul lupo cattivo, incantava con gli scenari del Grande Nord ancora selvaggio, commuoveva con le riprese di mamma lupa e dei suoi cuccioli. Proiettato poi dal nascente Gruppo Lupo in ogni parte d’Italia, applaudito da migliaia di persone di ogni età ed estrazione culturale, avrebbe avuto un effetto straordinario sull’opinione pubblica italiana.
Nel frattempo WWF e Parco avevano deciso anche di promuovere una ricerca sul Lupo appenninico, chiamando in Italia alcuni dei maggiori esperti, tra cui lo statunitense David Mech e lo svedese Erik Zimen, che avrebbero formato un gruppo di giovani operatori italiani, tra cui il biologo Luigi Boitani. Grazie all’appoggio del nuovo Centro Studi Ecologici Appenninici, che il Parco aveva costituito l’anno precedente, venne condotta così la prima indagine radiotelemetrica in Italia (con 3 lupi seguiti a distanza grazie a speciali collari), una delle primissime anche a livello europeo.
Non fu quindi per caso che proprio nel 1973 venne emanato dal Ministro dell’Agricoltura e Foreste Lorenzo Natali un primo decreto temporaneo per la protezione triennale del lupo, che poi fu reso definitivo nel 1976 ad opera del suo successore Giovanni Marcora. Ma la reazione dei nemici del lupo non si fece attendere: e fu ben presto diffusa la voce che questi animali stessero ritornando in numero nell’Appennino perchè importati dalla Siberia, trasportati con aerei ed elicotteri e magari poi lanciati con il paracadute. Una leggenda metropolitana ovviamente falsa, ma assai dura a morire. Cercare testimoni oculari dei fantomatici lanci sarebbe stato tempo perso, perchè ciascuno riferiva d’aver appreso questa storia da altre persone. Ma come si sa, proprio le storie assurde sono le più dure a morire.
3.- Il Lupo appenninico valica le frontiere
Mentre l’Operazione San Francesco si prodigava in conferenze, proiezioni e manifestazioni in difesa del predatore, risvegliando una pubblica opinione distratta e sonnolenta, il Lupo appenninico si consolidava nel Mezzogiorno d’Italia: e dall’Appennino Centrale iniziava la sua tenace risalita verso Nord, raggiungendo nel 1987 le Alpi Marittime e finalmente valicando la frontiera con la Francia. “Bonne nouvelle, le loup revient!” titolava un ampio servizio del più autorevole settimanale francese, L’Express: buone nuove, il lupo ritorna… Eh sì, perchè un animale estinto da decenni, che torna a stabilirsi tra le montagne prospicienti la Costa Azzurra, non è una notizia da poco. Significa davvero che si tratta di valli, foreste e alte praterie di qualità ecologica eccezionale, vuol dire che anche quando la natura sembra agonizzante può sempre riprendersi.
La sua corsa alla riconquista degli antichi territori non trovò ostacoli, riuscendo a superare – magari dopo ripetuti tentativi – autostrade e fiumi, zone abitate e lande desolate. Così il lupo, dopo mezzo secolo e oltre, si è di nuovo stabilito al Gargano e in Aspromonte, nei Monti della Tolfa e in Maremma, e poi via via lungo la catena alpina, da Occidente a Oriente, sconfinando in Svizzera e trovando di proprio gradimento anche il Trentino-Alto Adige e il Friuli-Venezia Giulia, dove sono stati già registrati i primi avvistamenti e certo l’ambiente appare per molti aspetti ideale.
Ma è proprio nelle Alpi Orientali che si delinea un fatto nuovo e inatteso: perchè secondo attendibili segnalazioni qui sarebbero in arrivo anche i lupi provenienti da Est, appartenenti quindi alla forma nordica europea, che presenta molte caratteristiche diverse, è più chiara e robusta, ha pelo più folto. Cosa accadrà allora: si troveranno in conflitto dividendosi il territorio, o punteranno verso una progressiva integrazione? Anche se certi “specialisti” sembrano ignorarlo, o volerlo dimenticare, sicuramente il Lupo appenninico (Canis lupus italicus), descritto nel lontano 1926 dal medico molisano Giuseppe Altobello, costituisce un’ottima sottospecie meridionale, ben distinta anche sul piano genetico.
A distanza di quarant’anni esatti dal lancio dell’Operazione San Francesco, è tempo di tracciarne un bilancio: e non vi è dubbio che le vada riconosciuto un successo senza eguali. Anzitutto, i lupi in Italia sono aumentati, forse decuplicati, ma nessuno dei disastri paventati o annunciati si è mai verificato. Non vi sono stati attacchi all’uomo, mandrie e greggi ben custodite hanno evitato aggressioni, e generalmente i danni al bestiame domestico sono rimasti contenuti entro limiti fisiologici (e oggi finalmente tutti ammettono che debbano essere prontamente indennizzati). Si è dovuto constatare che in molti casi più gravi il colpevole è il cane vagante, randagio o inselvatichito (fatto incontestabile nelle isole, dove di lupi non esiste neppure l’ombra). Nella sua espansione, il lupo sta modificando le proprie abitudini: e preda oggi nella maggior parte dei casi animali non domestici, ma selvatici, anche in rapporto al grande incremento di cinghiali, caprioli e daini. In questo modo un branco di lupi ben legato al proprio territorio vi esercita in modo equilibrato tutte le proprie funzioni: contenimento dell’eccessiva espansione degli ungulati, loro oculata selezione naturale e continuo spostamento delle prede da un pascolo all’altro.
4.- IL futuro del Lupo in Europa
E´giusto allora concludere che in futuro uomo e lupo potranno convivere pacificamente? In certo modo questo già avviene, benchè ovviamente non manchino episodi di più o meno aperta conflittualità. L’incremento della popolazione di lupi in Italia troverà un limite nelle stesse leggi naturali, o dovrà essere contenuto in qualche modo dall’uomo? E in tal caso, con quali metodi? Sarebbe giustificato procedere a parziali abbattimenti, o a tentativi locali di “rapida eradicazione dalle zone non vocate”, magari attraverso procedure cervellotiche e protocolli arbitrari, come vanno predicando da tempo alcuni pseudo-esperti del settore? Contro tali sistemi, per fortuna, si è levata quasi unanime la riprovazione del mondo ambietalista: ma non v’è dubbio che di tanto in tanto proposte del genere possano riemergere, perchè celano interessi ben diversi e più ampi della semplice difesa degli allevamenti e della pastorizia. Un esempio concreto e recentissimo viene anche dalla civilissima Svezia, dove il lupo non è davvero troppo numeroso: ma le insistenze degli allevatori, e soprattutto dei cacciatori, si erano fatte assordanti. Allora le autorità, cedendo alle richieste per un malinteso senso di democrazia, hanno autorizzato l’abbattimento di alcune decine di lupi nordici, prontamente eseguito dai fucilieri. Un intervento che ovviamente non ha prodotto alcun altro risultato se non molto spargimento di sangue, qualche guadagno per ricercatori trasformisti, e soddisfazione alle brame di sparatori in crisi di astinenza. A denunciarlo pubblicamente sono stati i veri ambientalisti, che hanno sfilato lungo le strade principali di Stoccolma in un funerale immaginario, con altrettante bare quanti erano stati i lupi uccisi. Per risolvere il problema della convivenza tra uomo e lupo, un metodo efficace invece esiste davvero, ed è stato sperimentato proprio in Abruzzo, grazie all’attiva collaborazione di allevatori, pastori e naturalisti: si tratta del Progetto Arma Bianca, che vede nell’impiego del cane da pastore abruzzese il miglior rimedio possibile. Perchè questo mastino fedele e coraggioso si sente “fratello” delle pecore, percepisce il pericolo in arrivo e lancia al “nemico” segnali di avvertimento, che nella maggior parte dei casi funzionano da efficace deterrente. Al branco di lupi converrà allora evitare lunghe e rischiose battaglie, cercando invece tutt’intorno qualche preda selvatica più accessibile. In questo modo, si salvano non solo la pecora e il pastore, ma anche il formaggio di montagna e il lupo stesso: senza dimenticare questa magnifica razza di cani da gregge, addestrati fin dall’epoca dei Sanniti. Una prova in più del fatto che, per prevenire devastanti conflitti, è sempre meglio non premere alcun grilletto, ma ricorrere piuttosto all’arma pacifica della prevenzione e della collaborazione. La storia del Lupo appenninico e dell’Operazione San Francesco insegna quindi molte cose, e rappresenta anche il simbolo di un’Europa unita e pacifica, che non conosce frontiere. E’ stato infatti lui, prima ancora dei trattati di Schengen per la libera circolazione dei cittadini europei, a insegnarci che è possibile valicare montagne, superare frontiere e unire terre e popoli diversi, portando un vivo messaggio di speranza e di riconciliazione tra l’uomo e la natura.
di Franco Tassi